Il sistema successorio italiano fondato sulla famiglia
Il sistema della successione ereditaria nell’ordinamento giuridico italiano è disegnato in funzione della massima tutela possibile degli stretti familiari del defunto: e non
solo questo accade quando la successione si apre senza che il de cuius abbia lasciato alcun testamento (ambito nel quale campeggia la regola secondo cui l’eredità si devolve ai familiari più prossimi
al defunto) ma anche quando il de cuius intenda beneficiare con donazione o con lascito testamentario uno o più determinati soggetti bisogna tener conto della regola per la quale queste attribuzioni
non possono avere la conseguenza di limitare o di annullare quanto la legge obbligatoriamente riserva al coniuge e ai figli del de cuius.
Vi è poi da considerare che quando si parla, come si è appena fatto, di “famiglia” del de cuius si allude solamente al concetto di famiglia “tradizionale” o di famiglia “adottiva”: in altri termini, nella legge ereditaria non ha spazio il riconoscimento di aggregazioni non fondate su rapporti di coniugio o di sangue, a meno che non si tratti appunto di rapporti adottivi.
Ora, che nell’ambito della “famiglia” del de cuius debbano essere individuati i soggetti che ne divengono eredi qualora non vi sia alcun testamento, appare conclusione inevitabile: se infatti si volesse superare, perché ritenuta arbitraria, la regola che attribuisce l’eredità agli stretti congiunti del defunto sulla base del (solo) loro oggettivo rapporto di coniugio o di parentela, si dovrebbe pur trovare una regola sostitutiva, la quale, però, finirebbe probabilmente per consegnare questa materia a un’arbitrarietà tanto più spinta quanto maggiore fosse il ricorso a criteri finalizzati a individuare, nel caso concreto, i soggetti “meritevoli” di conseguire l’eredità.
Ciò che invece assai stride è che la legge non consenta di beneficiare oggettivi e lunghi rapporti di convivenza tra il defunto e i suoi superstiti che non siano a lui legati da rapporti di coniugio o di parentela: come può essere “giusto” che un parente di sesto grado (che magari mai abbia conosciuto il de cuius) prevalga su un convivente che, in ipotesi, abbia condiviso decine di anni con il defunto ?
Altrettanto stridore provoca la considerazione che il de cuius, se lascia stretti congiunti (coniuge, figli, ascendenti), deve loro necessariamente destinare la gran parte del suo patrimonio (è la cosiddetta “quota di legittima”): si pensi al caso di chi lascia il coniuge e un figlio, ove a costoro spettano i 2/3 dell’eredità, oppure al caso di chi lascia il coniuge e due figli, nel quale la quota riservata sale ai 3/4 dell’asse ereditario.
Non meno ingombrante è la quota dell’unico figlio, erede del genitore vedovo: gli spetta infatti la metà dell’eredità.Non solo, anche qui, la legge non riconosce alcun diritto conseguente a una lunga convivenza non formalizzata in un matrimonio; non solo è assai limitato lo spazio (è la cosiddetta “quota disponibile”) per disposizioni testamentarie o per donazioni a favore di soggetti al di fuori della cerchia di questi stretti congiunti; ma vi è pure da considerare che l’obbligo della legittima prescinde da qualsiasi altra considerazione che non sia l’oggettivo rapporto di coniugio o di parentela. E quindi la legittima, ad esempio, spetta tanto al figlio che ha avuto cura dei genitori tanto a quello che si è completamente eclissato; tanto al figlio che è rimasto con i genitori in normale armonia quanto a quello che ha maturato un insanabile dissidio o che ha perso qualsiasi credibilità per essersi reso autore di attività intollerabili; e così via.
L’unico “cedimento” che la legge ha consentito rispetto alla rigidità della “legittima” è quello derivato, in nome della continuità dell’impresa nonostante la morte dell’imprenditore, dalla legge 14 febbraio 2006, n. 55, che ha introdotto (negli articoli 768-bis e seguenti del codice civile) il cosiddetto “patto di famiglia”: con questa espressione si allude al contratto con il quale l’ imprenditore trasferisce l’azienda a taluno dei suoi discendenti e costoro, in “cambio”, compensano gli altri familiari partecipanti alla stipula del patto (ad esempio: i fratelli del donatario e il coniuge del donante).
Il pregio di questa “formula” è che il patto di famiglia non può essere messo in discussione dopo la morte del de cuius, nel caso in cui il valore delle attribuzioni ricevute da coloro che hanno partecipato al patto non sia in linea con quanto loro spetterebbe applicando le “ordinarie” regole che disciplinano la “quota di legittima”.
In altri termini, la stipula del patto di famiglia consente, senza timore di contestazioni in sede di eredità, di destinare la proprietà dell’azienda familiare con sufficiente anticipo rispetto alla successione ereditaria dell’imprenditore e di individuare quindi per tempo il soggetto che assumerà la guida dell’azienda una volta che l’imprenditore abbia passato la mano.
Vi è poi da considerare che quando si parla, come si è appena fatto, di “famiglia” del de cuius si allude solamente al concetto di famiglia “tradizionale” o di famiglia “adottiva”: in altri termini, nella legge ereditaria non ha spazio il riconoscimento di aggregazioni non fondate su rapporti di coniugio o di sangue, a meno che non si tratti appunto di rapporti adottivi.
Ora, che nell’ambito della “famiglia” del de cuius debbano essere individuati i soggetti che ne divengono eredi qualora non vi sia alcun testamento, appare conclusione inevitabile: se infatti si volesse superare, perché ritenuta arbitraria, la regola che attribuisce l’eredità agli stretti congiunti del defunto sulla base del (solo) loro oggettivo rapporto di coniugio o di parentela, si dovrebbe pur trovare una regola sostitutiva, la quale, però, finirebbe probabilmente per consegnare questa materia a un’arbitrarietà tanto più spinta quanto maggiore fosse il ricorso a criteri finalizzati a individuare, nel caso concreto, i soggetti “meritevoli” di conseguire l’eredità.
Ciò che invece assai stride è che la legge non consenta di beneficiare oggettivi e lunghi rapporti di convivenza tra il defunto e i suoi superstiti che non siano a lui legati da rapporti di coniugio o di parentela: come può essere “giusto” che un parente di sesto grado (che magari mai abbia conosciuto il de cuius) prevalga su un convivente che, in ipotesi, abbia condiviso decine di anni con il defunto ?
Altrettanto stridore provoca la considerazione che il de cuius, se lascia stretti congiunti (coniuge, figli, ascendenti), deve loro necessariamente destinare la gran parte del suo patrimonio (è la cosiddetta “quota di legittima”): si pensi al caso di chi lascia il coniuge e un figlio, ove a costoro spettano i 2/3 dell’eredità, oppure al caso di chi lascia il coniuge e due figli, nel quale la quota riservata sale ai 3/4 dell’asse ereditario.
Non meno ingombrante è la quota dell’unico figlio, erede del genitore vedovo: gli spetta infatti la metà dell’eredità.Non solo, anche qui, la legge non riconosce alcun diritto conseguente a una lunga convivenza non formalizzata in un matrimonio; non solo è assai limitato lo spazio (è la cosiddetta “quota disponibile”) per disposizioni testamentarie o per donazioni a favore di soggetti al di fuori della cerchia di questi stretti congiunti; ma vi è pure da considerare che l’obbligo della legittima prescinde da qualsiasi altra considerazione che non sia l’oggettivo rapporto di coniugio o di parentela. E quindi la legittima, ad esempio, spetta tanto al figlio che ha avuto cura dei genitori tanto a quello che si è completamente eclissato; tanto al figlio che è rimasto con i genitori in normale armonia quanto a quello che ha maturato un insanabile dissidio o che ha perso qualsiasi credibilità per essersi reso autore di attività intollerabili; e così via.
L’unico “cedimento” che la legge ha consentito rispetto alla rigidità della “legittima” è quello derivato, in nome della continuità dell’impresa nonostante la morte dell’imprenditore, dalla legge 14 febbraio 2006, n. 55, che ha introdotto (negli articoli 768-bis e seguenti del codice civile) il cosiddetto “patto di famiglia”: con questa espressione si allude al contratto con il quale l’ imprenditore trasferisce l’azienda a taluno dei suoi discendenti e costoro, in “cambio”, compensano gli altri familiari partecipanti alla stipula del patto (ad esempio: i fratelli del donatario e il coniuge del donante).
Il pregio di questa “formula” è che il patto di famiglia non può essere messo in discussione dopo la morte del de cuius, nel caso in cui il valore delle attribuzioni ricevute da coloro che hanno partecipato al patto non sia in linea con quanto loro spetterebbe applicando le “ordinarie” regole che disciplinano la “quota di legittima”.
In altri termini, la stipula del patto di famiglia consente, senza timore di contestazioni in sede di eredità, di destinare la proprietà dell’azienda familiare con sufficiente anticipo rispetto alla successione ereditaria dell’imprenditore e di individuare quindi per tempo il soggetto che assumerà la guida dell’azienda una volta che l’imprenditore abbia passato la mano.