A cosa serve il trust
La fase del pionierismo è ormai alle spalle e oggi si può, a buon titolo, sostenere che il trust fa stabilmente parte dello strumentario quotidiano di un buon numero di
professionisti italiani.
Perché questo utilizzo sempre più diffuso del trust? Ci sono indubbiamente alcuni casi “patologici”: ad esempio, c’è ancora chi abbocca all’amo di qualche improvvisato consulente, magari trovato in
internet o proveniente da Paesi che legittimano l’occultamento dei patrimoni e la creazione di strutture giuridiche artificiose, credendo che il trust sia un sofisticato escamotage per dribblare le
regole ereditarie o per sfuggire ai creditori, il fisco in primis.
Lasciando però da parte i casi di banditismo, alla domanda si può rispondere dicendo anzitutto cos’è il trust: il trust è la situazione giuridica che si verifica in ogni caso in cui un soggetto
(indicato come “disponente”, traduzione del termine inglese “settlor”) trasferisce la proprietà di determinati suoi beni a un altro soggetto (detto “trustee”: questo termine non si traduce) affinchè
questi raggiunga un certo scopo, indicato dal disponente, mediante lo svolgimento di un’attività, giuridica o materiale, inerente i beni affidatigli.
Ad esempio: il genitore anziano di un figlio disabile può affidare un determinato patrimonio al trustee affinchè il reddito di questi beni sia destinato al pagamento delle spese di assistenza, cura,
svago e istruzione del figlio.
I casi concreti della vita sono comunque innumerevoli e quindi il trust può essere utile appunto ogni qualvolta un certo scopo, che un dato soggetto voglia perseguire con riguardo a determinati beni
(immobili, partecipazioni, denaro, strumenti finanziari), sia raggiungibile solo (o sia meglio raggiungibile mediante) l’affidamento di questi beni a un soggetto diverso (il trustee, appunto) da
colui che matura il desiderio di realizzare quello scopo.
Per questo motivo, il trust è utile non solo per risolvere problemi personali o familiari, in quanto anche le esigenze degli imprenditori possono trovare soluzione con il trust: ad esempio,
anzitutto, per cercare di organizzare un efficiente passaggio generazionale dell’azienda e, più in generale, del patrimonio dell’imprenditore; inoltre, per impedire che l’azienda di famiglia finisca
sotto il controllo di un figlio che, purtroppo, abbia avuto vicende di vita (un matrimonio “sbagliato”, l’abuso di sostanze tossiche o, più semplicemente, la propensione a dilapidare e a vivere
spensieratamente); ancora, per agevolare l’imprenditore nell’esplicazione della concreta sua attività, come può essere per i trust deputati a gestire patti di sindacato, quelli istituiti a garanzia
di pagamenti o di cauzioni oppure finalizzati a supportare il buon esito di procedure concorsuali, eccetera.
Prima di scendere nei dettagli occorre però sottolineare, con vigore, un paio di fondamentali considerazioni.
Anzitutto, se è vero che il trust è di ormai ampia utilizzazione, è pur anche vero che si tratta comunque di una questione assai complicata: e quindi la regola secondo cui qualsiasi questione
professionale non può essere affrontata con superficialità o dilettantismo vale, a maggior ragione, quando si tratta di istituire un trust e di predisporne la regolamentazione.
L’altra essenziale avvertenza è che, come già detto, il trust è fortemente caratterizzato dal fatto che il trustee diventa effettivo proprietario dei beni affidatigli dal disponente e dal fatto che è
il trustee a dover attuare il programma che il disponente gli ha indicato.
Da ciò deriva che potrebbe anche non aversi un trust qualora siano stabilite regole che permettano al disponente di smontare la struttura a suo piacimento oppure qualora egli conservi sui beni del
trust un insieme di poteri tali da ridurre il trustee al ruolo di mero esecutore materiale o di prestanome; anche la qualità del trustee non è irrilevante perché, se in alcuni casi è “normale” che il
trustee sia uno stretto familiare del disponente o dei beneficiari, in molti casi la “tenuta” del trust è fortemente correlata alla indipendenza del trustee rispetto agli altri soggetti del trust e
dal fatto che il trustee abbia caratteristiche di soggetto professionale, dotato di autonomia di giudizio.
In altri termini, dalla non indipendenza del trustee o dalla invasività del disponente potrebbe derivarsi che è stato istituito non un trust ma un “semplice” rapporto di mandato: con la conseguenza
che i beni del trust, seppur intestati al trustee, ancora in effetti appartengono al disponente e con la conseguenza quindi che i creditori del disponente possono aggredire i beni del trust per
soddisfare le loro ragioni, ciò che invece non accade se il trust è “vero” e se i beni in questione sono effettivamente e indiscutibilmente di proprietà del trustee.
Il trust in dieci semplici passaggi
1) Il disponente (settlor) istituisce il trust indicando lo scopo da perseguire con riguardo ai beni che sono destinati all’attuazione del trust
2) Il disponente nomina il trustee (che può essere una persona fisica o una persona giuridica), indicandogli quali sono gli scopi che nella sua attività egli deve perseguire
in riferimento ai beni immessi nel trust
3) Il disponente nomina i beneficiari del trust: si tratta dei soggetti che, a seconda dei casi, beneficiano dei redditi del trust oppure dei soggetti che ottengono la
devoluzione dei beni in trust quando il trust cesserà
4) Il disponente può anche non individuare nominativamente i beneficiari, ma può limitarsi a dettare regole per la loro individuazione e indicare i soggetti che dovranno
effettuare la nomina
5) Il disponente di solito designa anche un protector o guardiano, con il compito di sorvegliare il comportamento del trustee, di autorizzarne gli atti più rilevanti e di
concorrere alle scelte che egli deve compiere
6) Il disponente trasferisce al trustee i beni che questi deve destinare all’utilizzo indicato dal disponente: si può trattare di immobili, denaro, strumenti finanziari,
partecipazioni, opere d’arte, gioielli, collezioni e altri beni mobili
7) Il trustee diventa proprietario dei beni vincolati al trust (e quindi il disponente perde la proprietà dei beni affidati al trustee)
8) Con il trasferimento dei suoi beni al trustee, il disponente rende quei beni estranei alle pretese dei suoi creditori personali (a meno che costoro possano esercitare
l’azione revocatoria con riferimento all’atto di dotazione del trust)
9) L’atto istitutivo del trust non deve contenere previsioni di revocabilità o indici dai quali si possa desumere che il trustee è in effetti un fiduciario, poiché in tal
caso non c’è l’effetto segregativo e i beni del trust vanno considerati come appartenenti al disponente
10) I beni del trust rimangono separati dal restante patrimonio personale del trustee: non rispondono dei debiti personali del trustee, se il trustee muore non entrano nella
sua successione ereditaria, se il trustee è coniugato non fanno parte della comunione legale dei beni con il suo coniuge
I possibili utilizzi del trust
Una delle caratteristiche più interessanti del trust è l’infinità degli utilizzi che questo strumento può avere: dal diritto societario al diritto di famiglia, dalla tutela di minori e incapaci
alla trasmissione generazionale delle aziende, dalla protezione dei patrimoni personali alle operazioni finanziarie più sofisticate.
Per rappresentare con semplicità e chiarezza l’utilizzo che il trust può avere, si pensi al caso di un soggetto (di nome Mario), vedovo e senza figli, il quale, svolgendo un’attività professionale
rischiosa (poniamo il caso di un medico chirurgo), intende preservare alcuni suoi beni (come, ad esempio, l’immobile destinato a suo studio professionale) rispetto ad eventuali responsabilità
risarcitorie che gli possano derivare da danni cagionati nello svolgimento della sua attività. Egli inoltre, non avendo eredi “diretti” intenderebbe, se possibile, attribuire la proprietà dello
studio professionale a quello dei due figli (attualmente minorenni) di suo fratello Giovanni, che in futuro intraprendesse con successo gli studi di medicina.
Ebbene, la più “classica” delle sistemazioni patrimoniali che si attuano in questi casi è la donazione della nuda proprietà del bene in questione dallo zio Mario ai nipoti minorenni (ad entrambi o a
uno solo di essi, con la condizione risolutiva relativa alla laurea in medicina), con la riserva del diritto di abitazione in capo al donante; essendo attribuita ai nipoti minorenni la nuda proprietà
del bene, i creditori del donante non possono assoggettare quel bene ad esecuzione forzata (e nemmeno il diritto di abitazione che residua in capo al donante è espropriabile); d’altro canto, con la
riserva del diritto di abitazione, il donante si garantisce il “controllo” del bene, nel senso che, da un lato, può continuare a utilizzarlo e, d’altro lato, con la sua “presenza” impedisce “di
fatto” ai donatari, una volta divenuto maggiorenne, di disporne.
Vi sono però alcune inefficienze che con l’utilizzo del trust sarebbero invece rimediabili:
a) l’attribuzione della nuda proprietà ai donatari crea, in capo agli stessi, una posizione giuridica che può essere soggetta ad esecuzione da parte di loro eventuali creditori (i quali, d’accordo,
subiscono un “impedimento” dalla presenza del diritto di abitazione, ma hanno pur sempre un bene di una certa consistenza verso cui dirigere le proprie pretese); questa conseguenza non accadrebbe se
il bene in questione fosse “intestato” a un trustee con il dovere di destinarlo al beneficiario individuato con le regole dettate dal disponente;
b) i nipoti acquisiscono un diritto che, pur sempre con l’ostacolo “commerciale” rappresentato dalla condizione risolutiva e dal diritto di abitazione, è comunque alienabile ad un acquirente
interessato a “speculare” sul ridotto valore che il bene ha a seconda della presumibile durata del diritto di abitazione; anche questa situazione sarebbe meglio gestita se Mario, invece che ad una
donazione, ricorresse a un trust;
c) la donazione produce effetti immediati (salo risolversi nel caso in cui la condizione della laurea non si avveri) mentre con il trust il bene rimane nella sfera giuridica del trustee fino a che
non viene il momento nel quale il bene in questione deve essere passato ai beneficiari finali.
Con l’intestazione al trustee, inoltre, si evitano tutte quelle problematiche che insorgono quando vi è l’intestazione di un bene a un minorenne (ad esempio, la necessità di coinvolgere il giudice
tutelare ogni qualvolta vi sia da compiere un’attività di amministrazione straordinaria) e infine è meglio gestibile la situazione che si presenta quando il donante intenda riservarsi, per il caso di
suo bisogno, il potere di vendere il bene che con la donazione è stato intestato ad altri.
Il nuovo vincolo di destinazione di cui all’art. 2645-ter del codice civile
Con la recente introduzione nel codice civile del nuovo articolo 2645-ter, è stato sancito che, mediante atto pubblico, determinati beni immobili e mobili registrati possono essere destinati “alla
realizzazione di interessi meritevoli di tutela” per una durata non superiore a novant’anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria.
In altri termini, “imprimendo” su determinati beni questo vincolo di destinazione (che viene trascritto nei pubblici registri ove sono iscritti i beni oggetto dell’atto di destinazione) si ottiene
l’effetto di “isolare” questi beni dal patrimonio “generale” del soggetto che ne è il titolare, in modo da destinarli al perseguimento del fine per il quale l’atto di destinazione è stato istituito.
Con l’imposizione del vincolo di destinazione, i beni che ne sono oggetto vengono, in particolare, sottratti alle vicende in cui può essere coinvolto il loro proprietario; e così essi non possono
essere assoggettati a procedure esecutive o concorsuali, si sottraggono all’eventuale regime di comunione legale dei beni tra i coniugi, non fanno parte dell’asse ereditario, eccetera.
Si pensi al caso - spesso ricorrente - di una persona, non coniugata e priva di figli, che presti continuativa assistenza a un parente (ad esempio: un fratello) disabile. Queste persone si pongono
inevitabilmente il problema dell’assistenza al disabile nel caso in cui esse non possano più provvedervi (in ipotesi: per premorienza, infortunio o altra sopravvenuta incapacità). Nel contempo,
l’intestazione dei beni al disabile può non rivelarsi una scelta adeguata: si pensi al fatto che il disabile non sia in grado di provvedere alla gestione del bene, alla riscossione e all’utilizzo dei
frutti (ad esempio: i canoni di locazione), alle riparazioni occorrenti, all’eventuale loro vendita e al reimpiego del ricavato. Ebbene, mediante il vincolo di destinazione a beneficio del disabile,
tutte queste esigenze possono essere soddisfatte.
La nuova norma in questione rappresenta quindi una rilevantissima eccezione a quella fondamentale regola del nostro sistema giuridico, codificata nell'articolo 2740 del Codice civile, per effetto
della quale ciascun soggetto risponde delle proprie obbligazioni “con tutti i propri beni presenti e futuri”: in altri termini, a garanzia dei creditori e della loro parità di trattamento, il
patrimonio di ciascuna persona (sia quello attualmente posseduto, sia quello che verrà in futuro acquisito) è per intero ""dedicato"" a far fronte alle obbligazioni che gravino su quello stesso
soggetto.
Non è quindi possibile, salvo esplicite disposizioni di legge, isolare, nell'ambito di un dato patrimonio, dei sottoinsiemi, dei “compartimenti stagni” destinati a certi scopi e che siano
“impermeabili” rispetto al restante patrimonio di quello stesso soggetto: la “separazione” patrimoniale più frequente e conosciuta è quella che si crea ad esempio costituendo una società di capitali
e cioè destinando determinati beni (il denaro innanzitutto) a comporre il patrimonio della società e quindi “sottraendo” quei beni dal patrimonio “generale” di quel soggetto, con la conseguenza, da
un lato, che i creditori della società non possono avere soddisfazione sul suo patrimonio personale e che, viceversa, i creditori “personali” non possono aggredire i beni della società (anche se, per
il vero, possono comunque pignorare le partecipazioni che il loro debitore abbia in questa società).
Altra forma assai conosciuta e praticata di patrimonio “destinato” è quella che consegue alla stipula di un atto istitutivo di un “fondo patrimoniale”: si tratta di una specie di “membrana” che isola
determinati beni (destinati a far fronte ai bisogni di una data famiglia) i quali, pur rimanendo di titolarità di coloro cui appartengono, sono però per legge “sottratti” all'azione esecutiva dei
creditori per i debiti che uno dei coniugi contragga in ragione della sua attività imprenditoriale o professionale.
Quanto il nostro ordinamento necessitasse di una regolamentazione dei patrimoni destinati lo ha testimoniato il fervore che da oltre 15 anni si è manifestato intorno all'istituto del trust, al fine
di realizzare anche in Italia proprio quella separazione di patrimoni che è utile per mille fini: per esigenze imprenditoriali, per questioni professionali, per la tutela di soggetti deboli, per
operazioni finanziarie, e così via.
Le differenze tra trust e vincolo di destinazione
Uno dei primi quesiti che l’interprete si trova a dover risolvere con l’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 2645-ter del Codice civile è quello della identità o meno tra il vincolo di
destinazione e il trust.
Da un primo esame della nuova disposizione introdotta dal legislatore italiano sembra emergere una sostanziale differenza tra le due figure, anche se non è affatto da escludere che vi siano alcuni
casi in cui, in concreto, i due istituti possano assai simili.
Un prima fondamentale differenza rispetto al trust è che la nuova normativa in tema di vincoli di destinazione non prevede la partecipazione all’atto istitutivo del vincolo di due soggetti distinti,
mentre il trust – quale schema tradizionale – è incentrato sulla partecipazione di due soggetti: il disponente (settlor) ed il trustee. D’altro canto, è altrettanto vero che esiste la possibilità per
il settlor di dichiararsi trustee dei beni che vengano fatti confluire nel trust (si tratta del cosiddetto trust autodichiarato) così come non si può assolutamente escludere che all’origine del
vincolo di destinazione contemplato dall’articolo 2645-ter del Codice civile vi sia un atto bi- o pluri-laterale, anziché la volontà unilaterale di un solo soggetto finalizzata ad imprimere ad alcuni
beni un certo vincolo. Si pensi, ad esempio, ad un gruppo di fratelli che al fine di proteggere i beni di famiglia (la villa, il parco e le tenute avite) dalle conseguenze di eventuali vicende
negative che interessino l’attività imprenditoriale da ciascuno esercitata – e di far sì che i loro discendenti possano continuare a goderne – decidano di trasferirli ai rispettivi figli, obbligando
costoro ad imprimere ai beni ricevuti un determinato vincolo di destinazione (legato alla finalità di preservazione e godimento comune del patrimonio familiare).
Analogamente, si potrebbe ipotizzare il caso del libero professionista che, per mezzo di un negozio unilaterale, vincoli alcuni beni del suo patrimonio alla realizzazione degli interessi dei propri
figli minori, assicurando loro un sicuro mantenimento fino all’età adulta ed indipendentemente dalle possibili ripercussioni pregiudizievoli che possano riguardare il suo patrimonio.
E’ chiaro che in questi ultimi casi le differenze tra trust e vincolo di destinazione tendono ad affievolirsi, ma non ad azzerarsi.
Una seconda non trascurabile differenza tra vincolo di destinazione e trust riguarda i beni che possono essere formare oggetto del negozio che ne sia all’origine: solo beni immobili o mobili
registrati nel caso del vincolo di destinazione di cui all’articolo 2645-ter del Codice civile, generalmente qualsiasi bene nel caso del trust (e dunque non solo beni immobili, ma anche mobili non
registrati, partecipazioni societarie, titoli di credito, etc.).
Anche la durata costituisce un elemento distintivo importante tra le due fattispecie: per espressa disposizione legislativa il vincolo di destinazione di cui all’art. 2645-ter del Codice civile non
può superare i novant’anni o la durata della vita della persona fisica che ne risulti beneficiaria, mentre nel caso del trust la durata dipende dalle previsioni della legge regolatrice che ad esso
sia applicabile.
Anche la forma dell’atto istitutivo di un vincolo di destinazione e di quello di un trust non può dirsi coincidente: nel primo caso la disposizione legislativa contempla unicamente gli atti in forma
pubblica (con ciò imponendo l’adozione di una determinata forma), mentre nel caso del trust le regole sulla forma sono piuttosto varie, a volte imponendo l’adozione della forma scritta, a volte non
prescrivendo l’adozione di una determinata forma, che quindi finirà con il dipendere dalla natura dei beni che formino oggetto dell’atto istitutivo del trust.
Gli elementi distintivi tra vincolo di destinazione e trust non sono di poco conto; anzi, paiono tali da indurre a concludere che la fattispecie contemplata dall’articolo 2645-ter del Codice civile
ed il trust siano istituti da tenere ben distinti.
Il punto cruciale, se mai, è un altro, e cioè se la trascrivibilità del vincolo di destinazione introdotta dal legislatore con l’articolo 2645-ter del Codice civile possa consentire di dare una
risposta definitivamente positiva in merito alla possibilità di stipulare trust interni (ovvero i trust stipulati in Italia, da cittadini italiani e con riferimento a beni situati nel nostro Paese) o
se invece, anche se pare meno probabile, l’introduzione del vincolo di destinazione verrà interpretata come “sostitutiva” dei trust interni e dunque ostativa ad una loro configurabilità.